Design Street intervista Lorenzo Palmeri. Tra riflessioni sulla progettazione e l’invito a cercare ognuno la propria forma.

Abbiamo incontrato Lorenzo Palmeri, architetto e designer fra i più trasversali della scena italiana. Dagli strumenti musicali alle lampade, dalle superfici alle bottiglie d’acqua, passando per progetti culturali e formativi, sono infatti tantissimi gli ambiti in cui è attivo il suo studio. Senza dimenticare la musica, un amore scoperto ancor prima del design che Palmeri ha coltivato con passione negli anni, scrivendo prima colonne sonore per teatro e installazioni e pubblicando poi quattro album di sue composizioni (Preparativi per la pioggia, Erbamatta, La natura del parafulmine, 4 Crediti Cosmici dance floor). Un’infinità di mondi e di suggestioni in cui è però riconoscibile un filo rosso: l’idea che la progettazione viva al di sopra delle discipline e che il progetto debba fornire innanzitutto un servizio.

Ecco cosa ci ha raccontato.

Chitarre, lampade, tavolini, bottiglie d’acqua, abitazioni, format culturali. Hai progettato di tutto nella tua vita. Nonostante le profonde differenze che ci sono tra gli ambiti in cui lavori, c’è un fil rouge che lega i tuoi progetti?

L’idea del servizio. Non mi interessa lo stile, anche se dopo tanti progetti riconosco che ci sono dei tratti che ritornano. Però, non è un aspetto che cerco, ciò che conta per me è restituire un servizio e questo si deve adattare ovviamente alle singole realtà. Perfino la musica, che apparentemente non ne ha bisogno, mi piace che produca qualcosa di positivo in chi la ascolta.

Designer ma anche musicista. Hai scritto colonne sonore per il teatro e hai all’attivo quattro album di tue composizioni. Come convivono queste due anime in te?

La cosa che mi interessa è l’attitudine progettuale. Credo fermamente, e lo ripeto sempre, che la progettazione abiti al di sopra delle discipline. Le discipline hanno bisogno di un percorso, di sbagli, di crescite, di cadute, di ricostruzioni e ovviamente è necessario imparare come funzionano, quali sono gli strumenti. Però, alla fine non è questo che fa la vera qualità di un progetto, se non in rarissimi casi, ma è il modo in cui viene gestita quella disciplina.

Hai affermato che lo strumento musicale è una sorta di metafora applicata che contiene il senso del design tutto. Puoi spiegarci cosa intendi?

Mi riferisco al fatto che lo strumento musicale rende evidente la necessità di un utente. Se uno strumento non ha una relazione con qualcuno che lo suona, diventa inutile. O meglio, può funzionare anche come elemento decorativo e spesso è usato così, ma in questo caso l’oggetto non si sta esprimendo al meglio. Un po’ come i guantoni del boxeur appesi al chiodo, per capirci. Inoltre, lo strumento musicale richiede una grande comprensione di tecniche che ha una lunghissima costruzione di usi e significati che si sono stratificati nei secoli. Per esempio, trovo stupidi progetti come gli strumenti con tastiere tonde, perché si tratta di esercizi che non hanno nulla a che vedere con la progettazione reale di uno strumento musicale.

Puoi raccontarci uno dei progetti che hai realizzato in ambito musicale?

Ho un legame speciale con gli strumenti musicali e, in particolare, mi piace il tipo di pianeta evocato quando si fanno questi progetti. Ne ricordo qui tre. Paraffina Slapster, la chitarra in alluminio aeronautico che ho disegnato per Noah Guitars, utilizzata poi da Lou Reed. Navel per Msd, chitarra di cui ho realizzato una versione in FENIX, una in legno e una serie limitata in legno Kauri, un legno che ha 50.000 anni, motivo per cui mi divertivo a chiamarla la “chitarra più antica del mondo”. E Nemo per Zanta, primo pianoforte nella storia ad avere un fronte curvo. Una piegatura realizzata in FENIX che produce una maggiore amplificazione naturale del suono, accentuando anche la prossemica dell’oggetto. Uno strumento che tende a risucchiarti come fosse un’astronave, portandoti quasi in un altro mondo.

Stone Italiana, un’azienda che accompagna il tuo percorso professionale da oltre 10 anni, contrassegnato da tanti progetti interessanti. Vuoi raccontarcene qualcuno?

Con Stone Italiana abbiamo realizzato così tante cose che faccio fatica a distinguerle. L’aspetto più bello è sicuramente il rapporto che ho con loro, in particolare con Silvia Dalla Valle. Un rapporto speciale che dimostra come sia possibile lavorare bene con persone amiche. E poi mi piace tantissimo l’azienda, il modo in cui lavorano, il materiale che hanno sviluppato.
Dovendo proprio ricordare un progetto, mi viene in mente LivingStone, una serie di animali espositori in pietra che ho ideato per stimolare le persone a interagire con il materiale. E poi Leggero come una pietra (N. d. A.: un ciclo di incontri con esponenti dei più diversi settori creativi, progettato insieme a Tiziana Cera Rosco e la stessa Silvia, che si è tenuto nello showroom milanese di Stone Italiana tra il 2012 e il 2017), perché è stato una sorta di archetipo culturale, reso possibile dalla bellissima relazione con l’azienda.

Nel 2020 nasce Symposion 70, la bottiglia per Acqua Chiarella che mette al centro l’acqua. A distanza di quattro anni Symposion si arricchisce di un nuovo formato da 0,92 litri. Come nasce il progetto e qual è stata la sua evoluzione?

Anche in questo caso è stata centrale la relazione con l’azienda. Ho incontrato Andrea Vaccani e Anna Giugni, sua mamma, e ci siamo subito piaciuti. Da lì è iniziato un lavoro profondissimo di comprensione del loro rapporto con la fonte e con la distribuzione dell’acqua. L’obiettivo è stato quello di magnificare l’acqua, motivo per cui abbiamo tolto l’etichetta. La nostra relazione con l’acqua si basa tantissimo sulla luce, oltre che sul sapore. D’altronde, pensiamo che l’acqua sia bella, se la vediamo trasparente. Quindi, abbiamo progettato le due bottiglie in modo che possano raccogliere e polarizzare la luce, quando sono sul tavolo.
Un altro aspetto del progetto è stato la ricerca dell’icona, della non temporalità, perché una bottiglia deve durare almeno 30-40 anni. Per questo in entrambi i formati sono nascoste delle icone della memoria collettiva. Nel formato da 0,70 litri c’è una citazione della moka, mentre quello da 0,92 litri è un’interpretazione fuori scala e un po’ modificata della classica bottiglia di vino. Dei richiami che sono sia formali che funzionali. Tutte e due le bottiglie generano infatti una gestualità semplice, che guida automaticamente le mani nel gesto di presa senza bisogno dello sguardo.
Inoltre, le due bottiglie sono pensate come una famiglia. Per alcuni sono come due fidanzati, per altri fratello e sorella. Insomma, sono chiaramente connesse tra di loro.

La didattica rappresenta una parte importante del tuo lavoro. Da anni insegni in diverse scuole di design e nel 2023 hai fondato un’academy del progetto insieme al giornalista Paolo Casicci. Come nasce DesignMind?

Erano almeno 20 anni che avevo in mente di creare una scuola. Di tanto in tanto ne parlavo con i miei amici progettisti, ma ogni volta venivamo rapiti da quotidianità impellenti e la cosa veniva rimandata. Così a un certo punto ho pensato di fondarla io. Poi ho incontrato Paolo, che si è innamorato del progetto, e l’ho trascinato a bordo. Da lì è nata DesignMind, un’academy del design che si propone di riprendere un’attitudine della scuola ateniese, lo stesso rapporto intimo con gli studenti che c’era lì. Inoltre, volevo portare nella scuola quegli aspetti che fanno parte della vita di ogni persona, ma che non sono trattati nella didattica tradizionale come il fallimento, l’errore, la capacità di imparare a valorizzare quello che si fa e di valutare i propri punti di forza e di debolezza. Tutti temi che di solito sono un tabù, altro tema che mi affascina tanto e su cui ho in mente vari altri progetti.

Cosa ti affascina così tanto del tabù?

È un tema che mi incuriosisce perché, quando tendiamo a proteggerci da qualcosa, significa che quella cosa ha un’energia e un potere su di noi violentissimo, altrimenti non diventerebbe un tabù. In questo interesse però non c’è morbosità, ma la semplice analisi e ricezione delle energie che contengono queste tematiche.

Tornando a DesignMind, la prima edizione si è svolta nel luglio 2023 a Castellania Coppi, un piccolo borgo in Piemonte. La seconda edizione avrà luogo invece durante il Fuorisalone. In cosa differisce dall’edizione estiva?

DesignMind goes to DesignWeek nasce dal desiderio di mostrare che queste tematiche sono vere non soltanto all’interno di un piccolo borgo, ma anche in una realtà rutilante, enorme e veloce come la Milano Design Week. Quindi è una declinazione concepita anche come una sfida. Mentre nell’edizione estiva siamo noi che facciamo succedere qualcosa, qui ci ritroviamo in una situazione in cui accadono milioni di cose. L’edizione estiva richiede un approccio immersivo, quasi monacale. Ci si chiude in un posto e si lavora, con anche tantissimo piacere dentro. Invece, nella Design Week non è possibile ma neanche auspicabile che gli studenti vivano reclusi in una situazione che è tutta aperta. In questo senso, è proprio l’opposto. Qui infatti non c’è una sede fissa.

È uscito di recente “Disperazione progettuale”, il libro sui tuoi progetti nato e scritto in collaborazione con Alessandro Biamonti. A chi si rivolge e com’è pensato il libro?

È nato dall’idea di Alessandro Biamonti di fare un libro sui miei progetti. In quel momento, però, non mi interessava una retrospettiva sui miei lavori, ma le chiacchierate con Alessandro erano interessantissime e ci siamo resi conto che quella era la vera forza. Da lì ho capito che mi sarebbe piaciuto usare i miei progetti come catalizzatori di concetti legati alla progettazione. Anche qui c’è quell’idea di servizio di cui parlavo prima. Il libro non è un manuale, ma uno strumento per chi lavora con il progetto.

La Milano Design Week è dietro l’angolo. Puoi raccontarci qualcosa sui progetti che presenterai?

Sarò con Stone Italiana in Statale per la mostra-evento di Interni con “Caravanserraglio”, un’installazione pensata per raccontare Cosmolite, un materiale che recupera scarti di ceramica trasformandoli in un materiale nuovo.
Sempre durante la Design Week, presso Lorenzelli Arte si terrà “La Giacca del Designer”, una mostra che ho curato insieme a Mario Scairato, in cui 11 designer hanno progettato una giacca realizzata in fibra di TENCEL Limited Edition, un materiale prodotto da Lenzing, proveniente dal riciclo di un tessuto utilizzato per proteggere i ghiacciai nel periodo estivo. Appena presentato alle Nazioni Unite, il tessuto farà il suo debutto al Fuorisalone proprio con questa mostra. Si tratta di un progetto figlio di un’economia circolare. Infatti, oltre al tessuto, anche tasche e bottoni sono oggetti recuperati. Tutti gli abiti saranno realizzati da STP Company. System and technology for protection. Un’azienda storica italiana in pieno rilancio. E l’allestimento della mostra è realizzato con Cosmolite, il materiale di recupero di Stone Italiana.

Un progetto che ti piacerebbe realizzare in futuro?

È una risposta che cambia di volta in volta. Diciamo che, in generale, mi piacerebbe progettare una vita funzionante, cioè una vita bella e giusta.

Un consiglio che daresti a una/un ragazza/o che volesse diventare un designer?

I miei maestri non mi hanno mai dato un consiglio. Una cosa che all’inizio non capivo e di cui, invece, adesso sto intuendo il senso. Il punto non è dare consigli, ma aiutare le persone a trovare la propria forma. Quindi non ho un consiglio da dare, ma un invito: cercarsi. Quello che mi piace è l’attitudine di chi vuole imparare. Un aspetto fondamentale per me perché io sono felice quando imparo.

Author

Una laurea in Lettere Moderne e un amore sconfinato per il design. Mi occupo di comunicazione, creando contenuti per agenzie di comunicazione, studi di design e aziende di arredamento.

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