Design Street intervista Paola Navone
In occasione dell’inaugurazione del nuovo showroom a Milano di Gervasoni, la nostra Chiara Gattuso incontra per Design Street la designer e art director Paola Navone, una delle “signore del design” che ha lasciato più il segno nel design italiano.
DS: Com’è nata la sua passione per la progettazione?
PN: Per caso, come tutte le cose della mia vita! Ho sempre fatto il contrario di tutto quello che mi dicevano di fare, tra cui studiare architettura; e poi ho avuto la fortuna di incontrare dei professori interessanti, ad esempio ho visto l’ultima lezione di Mollino: era spettacolare, disegnava nella lavagna con due mani in prospettiva. Sapeva incantarti!
Poi ho scoperto che in giro per il mondo stavano succedendo cose molto interessanti. Io ho studiato a Torino, che era una città molto chiusa, e ho scoperto che c’erano altre strade e città dove c’era la voglia di creare e inventarsi. Ovunque la gente trovava per strada giovani architetti che presentavano cose assurde e utopiche, capace di sconvolgere il mondo della progettazione. Vedi un po’ gli Archigram, con i quali gli oggetti diventavano architettura e viceversa, o Superstudio, che realizzavano architetture che sembravano fossero in un movimento continuo, che spalmavano l’architettura come fosse una tela sul territorio. E altri artisti.. Insomma, mi sono incuriosita e andavo per strada come in una caccia al tesoro.
Ad un certo punto ho scritto la tesi, cercando di sbrigarmi con l’università, perché ero stanca di fare la studentessa e non vedevo l’ora di lavorare.
Per un periodo sono stata in Africa e ad un certo punto ricevetti una chiamata di Mendini, dicendomi che la mia tesi aveva fatto il giro dell’Italia.
Da lì, il boom! All’epoca Mendini dirigeva Casabella, e mi ha chiesto di venire a Milano per aiutarlo nella scrittura di alcuni libri per la rivista. E così ho iniziato a lavorare.
Poi ho cominciato a fare il mestiere di architetto e tutto è venuto per caso.
DS: Tra gli anni ’70 e ’80 ha lavorato insieme a altri grandi maestri del design come Mendini, Sottsass e Branzi per il gruppo Alchimia, che è stato un grandissimo punto di riferimento del design Italiano. Quali sono state le più grandi caratteristiche del momento e cosa vi incuriosiva?
PN: In quel momento ero una ragazza. Ho avuto l’opportunità di conoscere Guerriero e Mendini, e così ci siamo lanciati in questa avventura meravigliosa. Facevamo tutto da soli, presentando durante il Salone ogni forma di lavoro di questo esperimento emergente e straordinario, che purtroppo penso che la generazione di oggi non ha avuto.
C’era la voglia di non fermarsi, perché ci confrontavamo di continuo con un mondo pieno di creatività e voglia di fare; così affascinante che noi non volevamo stare a guardare, ma volevamo dare un nostro contributo. E quindi facevamo delle dichiarazione di intenti e di rottura, nella simmetria, nelle figure, nei “non colori”, l’attribuire importanza alla superficie degli oggetti e meno alla struttura… progettavamo la “pelle” prima di fare l’oggetto.
Da qui anche il mio interesse nel lavorare con Abet Laminati, per i quali giocavo sulla bidimensionalità e sulle dimensioni. Quello era un periodo meraviglioso!
DS: Qual è l’evoluzione che ha avuto il design italiano da quel momento ad oggi? Esiste più il design italiano?
PN: Il design italiano oggi, secondo me, è in un momento di stallo. Di sicuro non c’è il design che ho vissuto io quando ero studente, quando il Paese cercava di dare una risposta al Dopoguerra. Da ogni incontro generazionale, anche al bar, nasceva la voglia di fare qualcosa, e le aziende erano anche curiose di conoscere i giovani progettisti. Era un momento molto speciale!
Di sicuro adesso questo momento manca, e come dicevo prima, i giovani designer hanno bisogno di essere spronati e incuriositi.
DS: Il suo design e il suo modo di progettare in generale è caratterizzato dalla contaminazione di culture differenti. Come il mondo esterno si combina con i caratteri del design italiano?
PN: In realtà non penso ci sia un metodo. Io viaggio tantissimo e riporto nei miei progetti quello che ho assimilato e mi ha affascinato. Può essere anche un semplice viaggio al supermercato, dove qualcosa ti colpisce, fa parte di te e lo riporti quasi involontariamente nei tuoi progetti. Non è qualcosa che ti devi imporre, ma deve venire spontaneo. Tutto quello che ti piace finisce in un bidone e poi quando ti serve esce fuori. Ognuno deve mettere passione in quello che fa, e non solo studiare!
DS: Segno distintivo del suo design, infatti, è la cura del dettaglio, che rende i suoi prodotti riconoscibili. Quanto il dettaglio per lei è fondamentale?
PN: Non riesco a dare delle risposte in assoluto, probabilmente perché in realtà non ci sono! Neanche saprei dire se è il dettaglio a dare carattere agli oggetti. Ti capita solo che istintivamente butti fuori tutto quello che i tuoi occhi hanno imparato, e ti ha emozionato.
DS: Lei si considera più architetto o designer?
PN: Niente! ne l’uno ne l’altro! Cerco soltanto di divertirmi quando progetto.
DS: Lei ha lavorato per alcuni dei più grandi brand di design, basta citare il fatto che lei è art director di Gervasoni, ma ha lavorato anche con Knoll, Alessi, Dada, Molteni, Driade ed altri. Come si costruisce il rapporto con altre aziende che hanno visioni e modi di approcciarsi differenti?
PN: Io ho sempre avuto ottimi rapporti con le aziende e non ho mai lavorato imponendomi di fare qualcosa. Se non voglio disegnare, non disegno! Ovviamente lavorando con aziende diverse, si creano rapporti speciali e identità diverse che produrranno idee diverse. Anche se possono esserci degli scontri, è bello lavorare insieme ad altri gruppi.
DS: Se fosse un oggetto, quale sarebbe e perché?
PN: Bella domanda! Peccato che non saprei come rispondere, è difficile scegliere! Se dovessi scegliere un elemento, adesso direi l’acqua; un oggetto… il letto! Sì, vorrei essere un letto, così puoi dormire quanto vuoi! o un bel divano grande e comodo.
DS: Che consigli darebbe ai giovani designer?
PN: Aprite gli occhi, andate a spasso e non annoiatevi mai!