Design Street intervista Diego Grandi. Tra progetti, amore per le arti visive e riflessioni sul design delle superfici.
Abbiamo incontrato Diego Grandi, architetto e designer riminese conosciuto per i suoi numerosi e importanti progetti nel surface design. Dai tessuti alle carte da parati, dalla ceramica fino allo sviluppo di nuove superfici come Mathera, l’innovativo pannello sviluppato per SAIB Egger Group candidato al Compasso d’Oro 2024, sono infatti tanti i materiali con cui il designer si è confrontato in questi 20 anni.
Ecco cosa ci ha raccontato.
Partiamo dal passato. Com’è iniziato il tuo percorso professionale?
Prima di laurearmi, avevo frequentato l’ambiente artistico milanese. Ho sempre provato una forte attrazione per l’immagine: dalla fotografia all’arte contemporanea, dalle illustrazioni al teatro sperimentale, con coinvolgimenti diretti anche in qualità di curatore. Dunque dopo gli studi ho iniziato a guardare al design in modo trasversale, attingendo da queste esperienze. E ho pensato a un percorso che potesse tradursi in un progetto a 360 gradi. In più, volevo confrontarmi con ambiti diversi rispetto a quelli all’epoca più battuti, e poiché la carta da parati e i tessuti mi interessavano, ho cominciato a esplorare quel mondo.
Sei di Rimini e l’associazione con Fellini è inevitabile. Anche il cinema ha influenzato il tuo lavoro?
Sì, certo. Anzi, il cinema è la mia prima grande passione. Nel 1992 avevo creato un collettivo con cui promuovevamo serate legate al cinema underground. Una passione che è entrata anche nel design nel 2014 con una serie di illustrazioni animate per Zucchetti. Una campagna pensata per comunicare un soffione che avevo disegnato per loro, Closer. Insieme all’illustratore Giacomo Nanni abbiamo immaginato delle sceneggiature, in cui tre piccoli spot della durata di 58 secondi esploravano le possibilità di questo oggetto sconosciuto.
Il surface design è il cuore del tuo lavoro. Qual è stato il tuo primo progetto nel mondo delle superfici?
Tappeti satellitari, un’auto-produzione che ho presentato al Salone Satellite nel 2000, prodotta poi dall’azienda Radici. La collezione riprendeva delle immagini dell’AMSAT, un satellite usato dalla NASA per fare ricognizioni della crosta terrestre (immagini che ho poi adattato per motivi di copyright). Uno strumento utilizzato in ambito scientifico per capire, attraverso le termografie, lo stato di salute della terra. La collezione evocava quindi la necessità di un’attenzione al nostro Pianeta. Era una sorta di ricognizione delle emozioni della terra. Un progetto che sintetizza un aspetto ricorrente nel lavoro del nostro studio: da un lato una lettura estetica, dall’altro l’idea di trasmettere un messaggio. Per me è infatti importante comunicare sempre qualcosa.
Poi arriva il progetto con Jannelli&Volpi.
Sì, nel 2001 Jannelli&Volpi produce un altro mio progetto presentato al Salone Satellite: le carte da parati Le Module. Una collezione che nasce sempre da una volontà di sperimentazione, sviluppando un prodotto che potesse decorare una parete senza la necessità di un posatore. Con Le Module, avevo infatti ridotto in pezzi la carta da parati, sostituendo i rolli con una piastrella di carta che metteva in evidenza anche la fuga, rendendola parte della stessa decorazione.
E quando ti avvicini ai rivestimenti in ceramica?
Mi avvicino nel 2003 con Lea Ceramiche, però non con un prodotto. Quell’anno abbiamo utilizzato la ceramica all’interno di un grande evento a Bologna. L’obiettivo dell’azienda era di rendere visibile le potenzialità di un rivestimento lanciato all’epoca, una monoporosa smaltata, tridimensionale, che aveva le dimensioni di 10 x 40 cm. Da lì nasce Lea Live, un progetto in cui la parete era diventata ceramica e tridimensionale. La collaborazione è poi proseguita per anni. Nel 2004 arriva il progetto Studies, una sorta di sperimentazione sulla superficie del grès, nel 2009 Mauk che rielabora il concetto di decoro a parete e a pavimento, e poi nel 2014 sviluppiamo Type 32 che riceve una Menzione d’Onore al Compasso d’Oro.
C’è un fil rouge che lega i tuoi progetti?
Preferisco lavorare su un metodo quando sviluppo un materiale piuttosto che su un riconoscimento visivo.
La parola che sembra legare oggi tutte le superfici è: tattilità. Questo trend esprime il nostro bisogno di riconnetterci con la natura o secondo te c’è anche dell’altro?
Vivendo in un periodo di ipersensorialità, la vista non era più sufficiente. Se a questo aggiungiamo l’attenzione verso la sostenibilità ambientale, era naturale questa riscoperta della materia e dell’artigianalità. In questi anni abbiamo visto tanti artisti e designer italiani, spagnoli, brasiliani, messicani che hanno lavorato con la materia prima, con un atteggiamento sempre più “crudo”, abbandonando la serialità della produzione industriale. Una riscoperta della materia che negli ultimi anni sta influenzando anche le grosse aziende che, infatti, hanno cominciato a imitare l’effetto artigianale.
Uno dei tuoi ultimi progetti è Mathera, il pannello sostenibile che hai sviluppato per SAIB Egger Group, candidato al Compasso d’Oro 2024. Com’è nato il progetto e quali sono gli aspetti che lo caratterizzano?
Vista la nostra esperienza nel surface design, siamo stati contattati dall’azienda per dare vita a una tecnologia che produce una superficie di nuova generazione. Partendo da una base di legno rigenerato, un pannello truciolare, l’idea è stata quella di trasferire quegli stessi valori in una nuova superficie a sua volta realizzata con materiale riciclato, composto di pietre e di quarzi. Il progetto prende ispirazione dal campionamento di superfici tridimensionali legate al mondo della natura.
È stato uno sviluppo graduale. Mathera doveva essere usato come top per cucine perché ha prestazioni altissime e SAIB non produceva questa tipologia di prodotto. Poi vedendo il materiale, abbiamo pensato che potesse essere usato anche per superfici verticali e non solo orizzontali. C’è la possibilità di utilizzarlo ovunque, persino in camera da letto. Le polveri di pietre e di quarzi, una volta compattate e stabilizzate, hanno resistenze altissime in tre decimi di millimetro, in pratica parliamo di 0,3 mm. Veramente pochissimo. L’idea di creare una nuova superficie, di sperimentare qualcosa di diverso, dopo il mio lavoro nella ceramica, è stata per me una cosa davvero stimolante.
In più, stiamo lavorando anche sulla comunicazione del brand. E, a questo proposito, è tornato il mio amore per le arti visive. Nell’ultimo catalogo di Mathera, infatti, il racconto del progetto ha coinvolto professionisti diversi: una illustratrice, fotografi e un regista.
Mathera prevede degli sviluppi?
Stiamo lavorando su una nuova superficie, ma al momento non possiamo dire di più.
Materiali sostenibili. Le principali tendenze in atto?
C’è una sperimentazione che è frutto del coraggio di creativi, designer, scienziati. Sono collettivi che fanno massa critica. È fondamentale il coraggio, indipendentemente dal risultato estetico. Sono tematiche molto sentite, in particolare, nei Paesi del Nord Europa. L’obiettivo è di sviluppare una sensibilità nel pubblico, di incuriosire e di educare ad altri valori. Poi certo devono arrivare le grandi aziende. Le scuole servono da stimolo.
Su quali progetti stai lavorando in questo momento?
Oltre agli sviluppi di Mathera, sto lavorando a un prodotto ceramico per un’azienda artigianale e a una nuova collezione per Azzurra Ceramica.
Un progetto che ti piacerebbe realizzare in futuro?
Una sedia. Anni fa avevo realizzato una sedia da giardino che non è stata prodotta, Rimini Chair. Una seduta ridotta all’osso, pensata per metterci immediatamente in contatto con la natura. La sedia era composta da una struttura essenziale con una lingua di tessuto che ricordava le sdraio delle spiagge. La particolarità era che questa lingua di tessuto poggiava direttamente sul terreno ma, nonostante la sua leggerezza, manteneva salda la stabilità grazie al peso del corpo, permettendo di accarezzare il terreno. In pratica, interpretava la vita en plein air con uno spirito romantico. Inoltre, la sedia aveva una cerniera che permetteva di togliere il tessuto, potendola così tenere fuori anche con le intemperie. Ecco questo genere di cose mi attrae molto. Stiamo arrivando a un’overdose. In un momento in cui si dovrebbe ridurre, è inutile proporre cose, se non hai nulla da raccontare. Per questo mi piacciono progetti e ricerche. Se non dai la possibilità di progettare con nuovi materiali e superfici, il design diventa stagnante.
Cosa consiglieresti a una/un ragazza/o che volesse diventare oggi un designer?
Probabilmente saranno loro a insegnarmi qualcosa, visto che sono la nuova generazione. Io gli direi di distinguere il vero design dai rumori di fondo. Il design è progetto. L’unica cosa che mi auspico è che venga dato il giusto significato a questo termine, pur nei suoi cambiamenti.