Design Street intervista i Testatonda, eclettico gruppo di progettazione torinese con una storia simile a un film. Ecco cosa ci hanno raccontato.
Abbiamo incontrato i Testatonda (Nicolò Corigliano, Matteo Minello, Valter Cagna) al Fuorisalone, in occasione della presentazione di Ronin, la collezione di lampade che hanno firmato per Zava. Un progetto che trova ispirazione nella cultura giapponese come suggerisce il nome, omaggio ai cosiddetti uomini onda, i samurai rimasti senza padrone alla ricerca di nuove strade.
La storia di Testatonda è simile a un film. All’origine del progetto: un incontro casuale e la scoperta di affinità e obiettivi comuni. Obiettivi che si traducono nella creazione di un gruppo nel 2019. Oggi Testatonda è una realtà multiforme che disegna arredi e complementi dalla forte presenza scenica, alternando collaborazioni con aziende all’autoproduzione. Cuore dello studio è infatti un vero e proprio laboratorio, un tempo falegnameria, nel quale Nicolò, Matteo e Valter possono realizzare prototipi su prototipi sperimentando in totale libertà.
Ecco cosa ci hanno raccontato.
D.S. Come nasce Testatonda?
V.C. Io e Nicolò ci siamo conosciuti durante un volo per Barcellona. Eravamo seduti vicino e abbiamo iniziato a chiacchierare. All’epoca Nicolò aveva una falegnameria ereditata dal padre, io lavoravo come designer per un’azienda. Entrambi volevamo fare qualcosa di diverso e abbiamo pensato di creare un progetto insieme.
N.C. Però, l’inizio è stato disastroso. Siamo partiti con un progetto che non ha mai visto la luce. Dopo qualche mese, ho incontrato Matteo a un evento a Milano. Ci siamo detti le stesse cose di cui avevo parlato con Valter e da lì abbiamo pensato di creare un progetto collettivo per cambiare vita.
V.C. L’idea di Testatonda è nata nel settembre 2019. All’inizio eravamo in 5 e ci dedicavamo a questo progetto la sera e durante i weekend. Il plus di Testatonda era di avere un grosso laboratorio (la falegnameria) che ci dava la possibilità di realizzare prototipi. Fare il designer costa e avere un laboratorio permette di autoprodursi e, dunque, di risparmiare.
D.S. Qual è stato il vostro primo progetto?
V.C. Il primo progetto di Testatonda è F4. Un progetto concepito nell’ottobre 2019, mentre ero a casa con quattro costole rotte. Quando stiamo male, penso che il nostro cervello riesca ad annientare il dolore creando. F4 è nato così. Si tratta di qualcosa di molto semplice, basato sugli incastri. Abbiamo realizzato un prototipo nell’arco di due giorni, avendo la fortuna di esporre il prodotto in uno showroom di vernici a Torino.
N.C. Avendo solo due giorni, non siamo però riusciti a laccare il prodotto. Ci siamo, dunque, presentati con una collezione bianca in un negozio di vernici. Però, quello è stato il primo vero banco di prova che ci ha permesso di testare il prodotto e la tenuta del gruppo.
D.S. E com’è andato il test?
N.C. Molto bene. La sera stessa ci hanno chiesto di ripresentare la collezione la settimana dopo, avendo così la possibilità di verniciarla.
V.C. Alcuni hanno colto una forma fallica in quei tavolini e ci hanno suggerito di esporli da Wovo, uno storico sexy shop di Milano. Durante il Salone del Mobile 2020 avremmo dovuto organizzare un evento con loro. Poi, però, è arrivata la pandemia.
D.S. Come avete affrontato quella pausa forzata?
N.C. Durante il primo lockdown ci siamo dedicati completamente al progetto. Proprio in quel periodo ci ha contattato Giacomo Guidi di Contemporary Cluster, una nota galleria d’arte di Roma, e ci ha proposto di fare qualcosa insieme. Così abbiamo disegnato un’intera collezione. Un pezzo ciascuno senza parlarci, confrontandoci su quello che avevamo disegnato in una videochiamata. Quella collezione non ha mai visto la luce, però è stato un momento che ci ha unito.
D.S. La vostra seconda collezione autoprodotta è Trespade. Come avete approcciato il progetto?
N.C. Un giorno Matteo è arrivato in laboratorio con una rete in acciaio molto fitta simile a una maglia medievale. Abbiamo passato l’intera serata a curvarla, a metterci fili, ci siamo seduti sopra. Alla fine, abbiamo abbandonato il progetto perché era troppo difficile. Poi è arrivata la Milano Design Week 2021 e io e Matteo abbiamo battuto a tappeto tutti i distretti per capire cosa fosse successo con la pandemia e come gli altri designer avessero risposto a quel momento. È a quel punto che abbiamo deciso di riprendere la maglia in acciaio da cui è nato Trespade. Il progetto ci ha impegnato tantissimo. La trama è interamente lucidata a mano, il che significa tantissime ore di lavoro ripetitivo e alienante. Si tratta, infatti, di un gesto che si ripete sempre uguale su una superficie molto piccola nel tentativo di renderla perfetta.
D.S. La collezione Trespade è stata raccontata con uno shooting fotografico fuori dai soliti schemi. Com’è nata l’idea?
N.C. L’idea è nata un po’ per caso. In quel momento, K-Way aveva una capsule collection nelle finiture dell’acciaio e, visto che i prodotti Trespade sono cromati, ci ha proposto di realizzare delle foto.
V.C. Non c’era nulla di pianificato nello shooting. C’erano solo il nostro prodotto e le giacche di K-Way. Da lì abbiamo cominciato a sperimentare sul posto. Il risultato è stato interessante anche grazie a Ivan Cazzola, un fotografo di Torino che arriva dalla moda. Per noi che lavoriamo nel design lo scatto è uno still life pulito, senza troppi fronzoli. Ivan ha scompaginato le carte.
D.S. Nel 2021 arriva la vostra prima collaborazione con un’azienda, Gebrüder Thonet Vienna. Potete raccontarci com’è partito il progetto?
V.C. Sfogliando il catalogo di Gebrüder Thonet Vienna, ci siamo resi conto che non c’erano paraventi e abbiamo deciso di disegnarne uno. Abbiamo mandato il progetto all’azienda ed è piaciuto. Quell’anno molte aziende stavano lavorando su questo, ma noi non lo sapevamo. Abbiamo realizzato due prototipi e uno dei due, quello che poi si sarebbe chiamato Feng, è andato in produzione. Rispetto al disegno originale lo abbiamo cambiato nelle misure, perché in showroom ci siamo resi conto che era sproporzionato, ma il concetto di partenza è rimasto in sostanza lo stesso.
D.S. Il richiamo all’Estremo Oriente torna in Ronin, la lampada per Zava che avete presentato alla Milano Design Week 2023. Com’è nata l’idea?
V.C. L’idea è nata sfogliando libri giapponesi sull’artigianato, sull’utilizzo del ferro, sulla produzione di coltelli, cappelli e ombrelli in carta di riso. A partire da lì, un giorno, ho preso un pezzo di carta, l’ho ritagliato e ho notato che piegandolo veniva fuori un cuneo. Questa è l’idea alla base del disegno. La forma della lampada ricorda, infatti, un cappello plissettato. Abbiamo inviato il progetto a Zava ed è piaciuto subito.
N.C. Nel confronto con Zava, abbiamo avuto un approccio pratico ai problemi. Occupandoci anche di produzione, comprendiamo i limiti dei progetti, l’impossibilità nella realizzazione. È ovvio che non può esserci uno stravolgimento, ma sono possibili degli accorgimenti in corso d’opera per rendere fattibile la produzione ed evitare costi folli. È il designer che deve andare incontro all’azienda e non il contrario.
D.S. E qual è stata l’ispirazione alla base dell’installazione di Ronin presentata al Fuorisalone?
N.C. Nell’installazione Ronin è circondata da quattro totem che hanno gli stessi cappelli della lampada. Abbiamo creato un contesto intorno al samurai, cercando di non essere troppo didascalici. Ci piace che i nostri progetti siano liberi, che possano essere interpretati in vari modi. Un approccio partito con i tavolini F4, visti da alcuni come una balena, da altri come un’anguria. Raccontiamo sempre una storia che è la nostra, ma la lasciamo aperta.
D.S. Altri progetti presentati durante la Milano Design Week 2023?
N.C. Un progetto in cui abbiamo messo un pezzo di cuore è il concept di una cucina che abbiamo presentato a Isola. L’idea è stata quella di creare una cucina per un metro quadro. Un’idea che nasce da un problema molto sentito da designer e aziende: i costi estremamente elevati degli spazi al Fuorisalone. A partire da qui abbiamo pensato di prendere un metro quadro e di realizzare qualcosa che potesse starci dentro, perché è quello che ci potevamo permettere.
V.C. La cucina è in acciaio. Noi volevamo portarla in rame, ma l’idea era troppo costosa. Matteo, il nostro piccolo chimico, è riuscito a creare un composto per dare al metallo una finitura effetto rame. Prima di portarla a Milano, c’è stata però un po’ di suspence. Abbiamo steso il liquido sull’acciaio venerdì sera e la cucina sarebbe stata trasportata la mattina dopo. La sera ci siamo resi conto che l’effetto c’era, ma non sapevamo se sarebbe durato o meno. Per fortuna, quando ci siamo alzati, la cucina era ancora lì.