Abbiamo intervistato Giampaolo Allocco, eclettico designer (ma lui preferisce farsi chiamare progettista) e fondatore diello studio DelineoDesign, che con umiltà, passione e grande determinazione ha raggiunto obiettivi straordinari: basti ricordare che ha vinto, solo nell’ultimo anno, una decina di premi internazionali (tra cui ben 5 Red Dot Award!) e che sta per inaugurare la nuova sede del suo studio a Montebelluna, in provincia di Treviso: un’architettura di grande impatto, destinata a contenere uno dei laboratori di progettazione più creativi e innovativi del design italiano.
Conosco Giampaolo da più di 20 anni, da quando abbiamo condiviso la splendida esperienza di “allievi ufficiali” alla Smalp, la Scuola Militare Alpina di Aosta. Un periodo che, oltre ad aver così fortemente saldato la nostra amicizia, ha rappresentato per entrambi una grande scuola di vita (come Giampaolo ricorda quando mi elenca i suoi “maestri”).
Al di là dei rapporti personali, sono convinto che Giampaolo incarni quell’esempio di progettista che ha fatto grande il design italiano ma che oggi sta scomparendo. Quello che rifugge i riflettori delle passerelle e dei grandi eventi, per concentrarsi invece sullo sviluppo dell’idea che sta alla base del prodotto. Poco “star designer” e molto “maestro d’arte”, come quelli di un tempo; che non si accontenta di un’estetica “ammiccante” e fine a se stessa, ma che si pone l’obiettivo innovare il prodotto, di dare il suo personale contributo per far fare al design, ogni volta, un piccolo passo in avanti. Credo che questa sia la grande forza (perduta?) del design italiano, che Giampaolo sa interpretare così bene
DS: Iniziamo con una domanda sulla tua vita: quando hai capito che avresti fatto il designer?
DD: Nel 1996 mi sono innamorato del design leggendo la rivista MODO. Lui ha incontrato me. Da allora, ogni giorno della mia vita è un cammino orientato al design e non riesco più a farne a meno.
DS: Hai avuto qualche difficoltà in questo percorso?
DD: All’inizio mi sono mosso in uno stato di totale incoscienza. Del resto, abbandonare una carriera e la relativa tranquillità economica per fare design è di per sé folle. In quel momento non avevo certamente idea di cosa sarebbe stato il mio futuro, per fortuna. Ma, una volta raggiunta la consapevolezza che il mestiere intrapreso era una missione esistenziale, sono arrivate le prime difficoltà. Sto parlando esclusivamente di scelte apparentemente difficili in quanto strategiche. Per esempio, l’ubicazione periferica del mio studio rispetto a Milano, capitale del design mi, ha tormentato per molto tempo. Mi ha reso difficile definire la mia identità nel mondo del design.
Oggi per fortuna tutto sembra risolto. Seguo un percorso molto preciso, legato al mio DNA, al mio profilo culturale, formativo e geografico. Quindi sono molto sereno. E mi rendo conto di non aver sprecato tempo.
DS: Ci racconti la tua giornata tipo… come lavori, quando progetti, cosa fai nel tempo libero?
DD: La prima cosa che faccio la mattina, ovunque mi trovo è aprire gli scuri. Cerco la luce. È più forte di me, ho bisogno di vedere “l’inizio”. Poi ci sono le news. Quando sono all’estero adoro ascoltare la BBC perché ha sempre breaking-news globali e poi in lingua inglese diventa tutto più eclatante. A casa, le news sono il sottofondo della mia colazione. In ufficio, la prima ora è sempre dedicata alle comunicazioni e ai contatti, durante il giorno invece sono a disposizione dei miei collaboratori e clienti. Per le riflessioni sui progetti invece mi chiudo in una stanza a parte. Pur lavorando in uno spazio aperto – si usa dire loft? 😉 – preferisco “il minimo” perché lì non subisco distrazioni. Mi concentro meglio. Il resto del mio tempo è totalmente dedicato alla mia vita privata, quella familiare o riflessiva. Giorno o notte fa lo stesso. Funziono come i vasi comunicanti.
DS: Domanda d’obbligo: chi sono i tuoi maestri ispiratori?
DD: Sinceramente non ho la propensione a guardare gli altri. Tempo fa, ricordo di aver letto in una pubblicazione che un grande Maestro può essere considerato tale quando è moralmente perfetto. Ora, è chiaro che durante l’attività progettuale ti confronti anche con chi hai intorno perciò non essendo a conoscenza se quelli che osservo hanno questa peculiarità prendo per buono alcune figure non necessariamente legate alla mia professione e chiaramente popolari, che sono affascinanti per l’approccio alla ricerca o per un risultato raggiunto, oppure per il proprio percorso progettuale.
Tra quelli che seguo e analizzo vi sono:
– Renzo Piano (il suo percorso iniziale mi lusinga perché non è all’italiana).
– Franco Battiato (per la sua profonda ricerca sull’esistenza e sulla spiritualità).
– Philippe Starck (per la sua abilità).
– Bruno Munari (per la sua purezza).
– Lorenzo Cherubini (per l’ossessiva voglia di essere nuovo e sempre diverso con apparente spontaneità).
– Mio padre (perché mi ha insegnato a sopravvivere agli eventi).
– Il M° Giusto Pio (perché è un vero maestro e non te lo fa pesare).
– Il Colonnello Giorgio Braga (perché ha disegnato la corazza che uso tutti i giorni).
– Tadao Ando (per la spiritualità presente nelle sue architetture).
DS: Oggi la parola “design” è molto di moda e sembra che tutto sia design. Ma cosa è per te design? È provocazione, estetica, funzione, innovazione?
DD: I termini che mi proponi sono alcuni degli strumenti che si possono usare per fare design, anche indistintamente. Ma sono troppe le volte che ho sentito rispondere a questa domanda solo riconducendola all’origine della parola disegno = pro-getto e quindi proiezione, salto in avanti, ecc ecc..
Provo a descrivere un concetto che ho in mente (è la prima volta che rispondo così) e poi vediamo: per me il design è un incantesimo della nostra epoca. Del resto la storia ci insegna che in altre epoche abbiamo avuto momenti con una simile euforia, se penso al Rinascimento, alla Belle Epoque o, più in piccolo, alla nostra “Dolce Vita” romana.
Oggi il design è caratterizzato inequivocabilmente da una grande diffusione ed è certamente un patrimonio collettivo. Però in alcuni casi eccede perdendo credibilità. Ecco perché anch’io devo prendere le distanze da questo termine e preferisco esser chiamato progettista. Siamo indubbiamente la società del movimento, della libertà, del dinamismo, della comunicazione con una propensione alla spettacolarizzazione. Sembra che tutto possa diventare design. Durante l’ultimo Salone del Mobile, all’interno della fiera è stato perfino improvvisato un Bar Design che probabilmente vendeva panini di design a gente di design.
Ecco perché non penso al design come “effetto” (estetica, funzione, innovazione, ecc.) ma come “causa”, in grado di renderci protagonisti forse inconsapevoli di un periodo artistico e culturale capace di trascinarci verso un cambiamento epocale.
Forse il design è ad uno stato gassoso che può arrivare (e arriva..) ovunque. Ma proprio perché il termine è oramai eccessivamente inflazionato, si dovrebbe pensare al design come a un approccio alle cose, al lavoro, alla vita. Se sarà rispettoso dei principi e dei suoi valori costituzionali sarà facile distinguere il buon design dal finto design. Forse è già in atto un interessante tentativo di ricreare una formula culturale che contraddistinguerà il nostro tempo e automaticamente porterà tutto a una selezione naturale.
DS: Non ti sembra che il design abbia tradito la sua missione originaria, quella cioè di creare, attraverso l’industria, prodotti di buona qualità alla portata di tutti?
DD: Dobbiamo saper leggere il nostro tempo, con tutte le sue sfaccettature e le sue apparenti debolezze. Qualcosa di buono lo stiamo realizzando anche noi, non trovi?
DS: Le parole d’ordine del design contemporaneo:
DD: “Ovunque”. Inteso come applicabilità.
DS: Qual è l’oggetto che più di ogni altro rappresenta la contemporaneità?
DD: Più che ad un oggetto penso ad una funzione: il touch screen. Ci ha obbligato all’uso delle dita come, forse, neanche il Creatore aveva pensato. E poi non dimentichiamo il concetto di “connessione” che ci avvolge.
DS: Perché i giovani designer in Italia fanno così fatica a farsi conoscere? Sembra che le aziende facciano a gara a contendersi i “soliti noti”, le “star” del design…
DD: Bisogna distinguere le aziende che operano secondo certi principi (esempio Vitra: fai un giro a Basilea e capirai tutto) e quelle che lo fanno senza riflettere. A me sembra che quelle aziende facciano a gara per finire nel baratro. Questa ossessiva ricerca delle star le porterà alla perdita della propria identità. Però anche questa è selezione naturale. Del resto non è colpa mia se si fanno prendere dall’istinto. Quando sei a capo di un’organizzazione dovresti essere il più razionale e visionario di tutti. Nel design Industriale si pianifica sempre tutto, anche il risultato da raggiungere.
DS: Alla luce della tua esperienza che tipo di formazione consiglieresti a un giovane che intraprende questa professione?
DD: Consiglierei di credere tenacemente in se stesso. Dalle modalità in cui nascono le troppe scuole di design comincio a dubitare della qualità. In ogni caso, la mia idea di scuola è a metà strada tra i College Americani e le “botteghe” nei nostri artigiani o dei nostri Maestri del Rinascimento. Almeno così sei immerso 24 ore su 24 nel progetto e ti concentri solo sul tuo obiettivo.
DS: Il tuo studio si chiama “DelineoDesign Sport Attitude”. Ci spieghi l’origine di questo nome?
DD: È un concetto, una specie di slogan, che ho estrapolato dalla mia esperienza. Lo considero un proposito per vagliare un’eventuale convergenza di natura operativa e creativa. Con “Design Sport Attitude” intendo quell’insieme di valori che l’essere sportivi comporta e che si ritrovano anche nel fare design o essere progettisti: lavorare in team, con disciplina, autenticità, dinamicità, essenzialità, appartenenza, libertà, con piacere, rispetto degli altri per un obiettivo comune.
DS: Tu vivi e lavori a Montebelluna, nel “profondo Nordest”. Come si lavora in questo territorio e quali differenze vedi con il distretto della Brianza?
DD: Non credo ci siano sostanziali differenze. Ricordo una tesi di laurea cui assistetti diversi anni fa. Si cercava di capire e quindi di dare una definizione di distretto sportivo (qui è chiamato Sport System District). Alla fine è emerso che la complicità popolare del sapere porta un’area geografica ad acquisire certi automatismi che diventano il DNA. Ecco perché abbiamo i distretti dello sport, dei rubinetti, delle sedie, dei coltelli. Negli anni ho maturato un grande senso di appartenenza al mio distretto. È stato fondamentale per la ricerca d’identità di cui ho già parlato.
DS: Oggi molti periodici di design trasferiscono i contenuti sul web e nascono sempre più giornali on-line. Come deve essere a tuo avviso il magazine di domani? Quali caratteristiche dovrà avere?
DD: È sufficiente che sia il testimone effettivo del nostro tempo e provocatoriamente visionario del prossimo futuro. In poche parole: vero, underground.
DS: C’è qualche pezzo che ti piacerebbe disegnare, con cui vorresti cimentarti?
DD: Mi piacerebbe disegnare/concepire uno show. Un palcoscenico che, come un’installazione, sia capace di amplificare l’energia artistica di chi lo sale.
DS: Com’è la tua casa?
DD: Assolutamente intima, priva di progetto.
DS: Un libro, un film, un brano musicale.
DD: Visto che è di moda, la Biografia di Steeve Jobs per fare tesoro della sua maniaca e ossessiva ricerca della perfezione Potrebbe aiutare l’osservazione degli oggetti che ci circondano. Poi farei un salto nella storia delle ritualità orientali con il film/libro “Memorie di una Geisha” e poi una canzone ribelle come “Up Patriot to Arms”. Di questi tempi anche “Povera Patria” (sempre di Battiato) potrebbe essere utile per l’autoanalisi sociale. Ma deve esser chiaro che mi riferisco a questi minuti… domani potrei avere già un’altra colonna sonora.
DS: Come ti definiresti in tre parole?
DD: Una persona normale.
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MI HA FATTO MOLTO PIACERE LEGGERE L’INTERVISTA A GIAMPAOLO ALLOCCO: HO AVUTO LA FORTUNA DI CONOSCERLO MA NON SAPEVO DELLE SUE NOTEVOLI ABILITA’ DI “ARTIGIANO PROGETTISTA” RICONOSCIUTE ANCHE – NON SOLO – DAI TANTI PREMI RICEVUTI. LEGGENDO IL SUO RACCONTO DI SE’ E VEDENDO LE SUE REALIZZAZIONI MI E’ PIACIUTO MOLTO COMPRENDERE UN PO’ PIU’ A FONDO LE QUALITA’ SUE E DEL SUO LAVORO. COMPLIMENTI A LUI E UN INVITO A DESIGNSTREET PERCHE’ SEGUA LE SUE PROSSIME REALIZZAZIONI DA VICINO. IL DESIGN ITALIANO NON E’ AFFATTO MORTO!
Complimenti Giampaolo per il tuo pensiero sul modo di intendere e di lavorare nel design!
PS: quella bicicletta Carraro la riconosciamo… 🙂
Bell’articolo, Massimo
Lettura piacevole ed informativa anche per un “profano” come me.
Complimenti a tutti e due.
Marco